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🚇 Putin-Trump: cosa c'è in fondo al tunnel?

Buongiorno! Questo è il Punto, la newsletter che ti spiega l’economia e l’attualità in modo semplice e veloce!

Ecco cosa offre il menù di oggi:

  • 🚇 Putin-Trump: cosa c'è in fondo al tunnel?

  • 🖼️ Il mercato nero dell’arte

GEOPOLITICA

🚇 Putin-Trump: cosa c'è in fondo al tunnel?

Un tunnel sotto lo Stretto di Bering per unire fisicamente la Siberia all’Alaska.

Sembra l’idea di un visionario, e invece arriva direttamente da Mosca. Il progetto si chiama (con una certa dose di ironia) “Putin-Trump Tunnel”, e promette di collegare due continenti con un’infrastruttura lunga oltre 100 km.
Costo stimato? Solo $8 miliardi, secondo i promotori russi.

Ma di cosa stiamo parlando esattamente?

A lanciare l’idea è Kirill Dmitriev, capo del fondo sovrano russo RDIF e rappresentante speciale del presidente Vladimir Putin per gli investimenti.

Secondo Dmitriev, l’obiettivo è creare un collegamento fisico tra Eurasia e Americhe, passando attraverso le isole Grande Diomede (Russia) e Piccola Diomede (USA), separate da meno di 4km ma appartenenti a due mondi diversi.

Il progetto prevede:

  • 🌍 Un tunnel di 112 km sotto lo Stretto di Bering

  • 🔗 Il collegamento diretto tra la regione russa della Chukotka e lo Stato americano dell’Alaska

Se mai venisse costruito, sarebbe il tunnel sottomarino più lungo del mondo.

Ma $8 miliardi bastano davvero?

Secondo Dmitriev, grazie alle tecnologie di scavo della Boring Company di Elon Musk, l’opera costerebbe “solo” $8 miliardi.
Peccato che le stime più realistiche parlino di $65-$100 miliardi.

E non è difficile capirne il motivo: la Boring Company ha costruito finora tunnel brevi, in zone desertiche e asciutte, non in regioni gelate, sismiche e praticamente disabitate come lo Stretto di Bering.

Le sfide ingegneristiche sono titaniche:

  • ❄️ Temperature sotto zero per gran parte dell’anno

  • 🌋 Alta attività sismica

  • 🧊 Mancanza quasi totale di infrastrutture nella remota regione della Chukotka

Insomma, l’idea di realizzare il tunnel con soli $8 miliardi appare decisamente irrealistica.

Ma perché Mosca tira fuori questa proposta?

La proposta è arrivata pochi giorni dopo una telefonata tra Putin e Trump e alla vigilia di un possibile incontro a Budapest per discutere di pace.
Dietro il progetto, insomma, non c’è solo la voglia di stupire, ma anche un chiaro messaggio politico.

Le motivazioni sembrano due:

  1. 🏆 Il fattore vanità: Trump ha sempre avuto una certa attrazione per i progetti monumentali che portano il suo nome. Un tunnel intercontinentale “Putin-Trump” sarebbe il tipo di opera simbolica che gli piacerebbe rivendicare come parte della propria eredità storica. Non a caso, secondo alcune fonti, avrebbe definito la proposta “interessante”

  2. 💼 Il segnale economico: per Mosca, proporre un progetto di cooperazione economica di questa portata serve a spostare l’attenzione dalle tensioni internazionali e dalla guerra in Ucraina, rilanciando un’immagine di apertura e collaborazione con l’Occidente

Ma questo tunnel servirebbe davvero?

Ecco il vero nodo della questione: l’utilità economica del tunnel è quasi nulla.

Collegherebbe infatti due aree tra le più remote del pianeta:

  • 🥶 La Chukotka russa, una regione vastissima ma quasi disabitata, coperta di ghiaccio e priva di strade moderne

  • ❄️ L’Alaska, altrettanto isolata e con una popolazione limitata concentrata nelle città meridionali

Prima ancora di scavare, servirebbero decine di miliardi solo per costruire ferrovie e autostrade di collegamento. In pratica, sarebbe come costruire un aeroporto internazionale in mezzo al nulla, senza vie d’accesso né passeggeri.

Insomma…

Il “Putin-Trump Tunnel” resta oggi più un gesto simbolico che un progetto reale. Una trovata di propaganda che mescola geopolitica, tecnologia e vanità personale, condita da un pizzico di suggestione fantascientifica.

Ma, al netto delle ambizioni, l’idea mette in luce un dato interessante: anche in un mondo diviso da guerre e sanzioni, la retorica della connessione globale fisica, economica o simbolica continua a esercitare un certo fascino.

Solo che, almeno per ora, tra la Siberia e l’Alaska c’è molto più di uno stretto da attraversare: ci sono due visioni del mondo difficili da riconciliare.

E tu cosa ne pensi del tunnel Putin-Trump?

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ARTE

🖼️ Il mercato nero dell’arte

Quattro minuti. Tanto è bastato, domenica mattina, a un gruppo di ladri per violare la sicurezza del Louvre e fuggire con otto gioielli della collezione reale francese.

Un finto mezzo da manutenzione parcheggiato lungo la Senna, vetri blindati tagliati in pochi secondi e una fuga in moto prima che scattassero gli allarmi.

Un attacco alla nostra storia”, ha commentato Macron.

E in effetti, ogni furto d’arte non è solo un colpo al patrimonio, ma una ferita alla memoria collettiva.

Da sempre, l’arte è anche bottino

Fin dall’antichità, il saccheggio delle opere d’arte è stato considerato un simbolo di vittoria. I Romani riportavano statue e dipinti come trofei di guerra, Cicerone arrivò a denunciare il governatore Verre per aver depredato i templi della Sicilia. . Molti secoli dopo, le spoliazioni napoleoniche svuotarono musei e chiese in tutta Europa, portando a Parigi capolavori destinati a celebrare la grandezza dell’Impero francese.

Da allora, l’arte è stata continuamente presa, spostata, rivenduta: perché chi possiede la bellezza, in qualche modo, possiede anche il potere.

I colpi da romanzo?
1. La Gioconda e il furto "patriottico" (1911)

Vincenzo Peruggia, impiegato italiano del Louvre, la prese semplicemente staccandola dal muro e infilandola sotto la giacca.
La tenne nascosta per due anni sotto le assi del pavimento di casa sua. Fu scoperto solo quando tentò di venderla agli Uffizi per “riportarla in patria”.

Risultato? Qualche mese di carcere e una calorosa accoglienza da eroe in Italia.

2. L'Urlo di Munch: rubato due volte

Il capolavoro di Edvard Munch è stato rubato due volte.

Nel 1994, durante le Olimpiadi di Lillehammer, due ladri lasciarono un biglietto: “Grazie per la scarsa sicurezza”. L’opera fu recuperata dopo tre mesi.

Dieci anni dopo, un secondo furto, stavolta a mano armata: “L’Urlo” e “Madonna” sparirono in pieno giorno. Recuperati nel 2006, ma danneggiati dall’umidità.

3. Il colpo del secolo a Boston (1990)

All'Isabella Stewart Gardner Museum sparirono 12 opere per un valore oggi stimato di $500 milioni. Due finti poliziotti immobilizzarono le guardie e saccheggiarono il museo.

Tra le opere rubate:

  • 🖼️ "Il concerto" di Vermeer (il quadro rubato più prezioso al mondo)

  • ⛵ "La tempesta sul mare di Galilea"

  • 🎨 Opere di Degas e Manet

A oggi, dopo 35 anni: nessun arresto, nessuna opera recuperata. Il museo offre ancora $10 milioni di ricompensa. Le cornici vuote restano appese ai muri.

Ma perché si ruba l’arte?

Perché è perfetta per riciclare denaro e nascondere capitali.
Un’opera d’arte non ha un prezzo oggettivo, ma un valore costruito: dipende da chi la vende, da chi la compra e da quanto è disposto a pagare. È questo margine di ambiguità che la rende perfetta per chi vuole muovere grandi somme senza lasciare tracce.

Un quadro può diventare garanzia per un prestito, una forma di pagamento tra privati o un “contenitore” di denaro sporco.

Le opere rubate spesso finiscono in caveau privati, lontane dagli occhi di tutti, oppure vengono usate come merce di scambio nel mondo della criminalità organizzata.

L’arte, in pratica, è diventata una valuta alternativa: facile da spostare, difficile da tracciare, ideale per chi vive tra legalità e zona grigia.

Quanto vale il mercato nero dell’arte?

Le stime parlano di un giro d’affari globale tra i $6 e gli $8 miliardi, ma gli esperti sanno che i numeri reali sono probabilmente molto più alti.

La filiera è ben strutturata:
1️⃣ Il furto: chi ruba fisicamente l’opera
2️⃣ Il trasporto: intermediari che la spostano
3️⃣ Il riciclaggio: esperti che falsificano la provenienza
4️⃣ La vendita al collezionista finale

A ogni passaggio, il valore dell’opera cresce e il rischio si abbassa.
Il risultato? Un mercato grigio, dove lecito e illecito si confondono.

Ma dove finiscono le opere rubate?

Il viaggio di un quadro rubato è lungo e globale:

  • 📍 Source countries (da dove partono): Italia, Grecia, Medio Oriente, Sud-est asiatico, Africa. Paesi ricchi di storia ma spesso con sistemi di sicurezza vulnerabili

  • ✈️ Transit countries (dove transitano): Svizzera, Singapore, Hong Kong. Luoghi con legislazioni "flessibili" dove è più facile creare documentazioni false

  • 🏦 Market countries (dove arrivano): Stati Uniti, Gran Bretagna, e più recentemente Cina e Russia. Dove si trovano i grandi collezionisti con i soldi

L’Italia è un caso unico: sia vittima che complice. Siamo tra i paesi più colpiti dai furti d’arte, ma anche tra i più attivi nel commercio interno.
Molte opere rubate non lasciano nemmeno il Paese: cambiano semplicemente proprietario, passando per antiquari o aste “ripulite”.

Il paradosso?

Il mercato nero dell’arte segue lo stesso schema della disuguaglianza globale: i paesi ricchi di cultura perdono i propri tesori, e quelli ricchi di denaro li collezionano.
Un flusso a senso unico che svuota chi ha la storia e riempie chi ha i soldi.

I gioielli rubati ieri al Louvre, oggi, potrebbero già essere chiusi in un caveau svizzero. Oppure riappariranno tra qualche mese, “ripuliti”, in qualche collezione privata.

Ma una cosa è certa: ogni furto d’arte non è solo una perdita economica.
È un pezzo di memoria collettiva che sparisce.
Un frammento di bellezza sottratto alla comunità per finire nel salotto di qualcuno che pensa di poterla possedere.

Secondo te, i musei dovrebbero...

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