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🚗 Autostrade: la storia di un affare d’oro diventato tragedia

Buongiorno! Questo è il Punto, la newsletter che ti spiega l’economia e l’attualità in modo semplice e veloce!
Ecco cosa offre il menù di oggi:
🚗 Autostrade: la storia di un affare d’oro diventato tragedia
📦 Amazon Web Services (AWS): quando l'infrastruttura digitale del mondo va in tilt
ITALIA
🚗 Autostrade italiane: l'affare d'oro diventato tragedia

Il 14 agosto 2018, il Ponte Morandi di Genova crolla trascinando con sé 43 vite.
Una tragedia che non fu una fatalità, ma l’esito di vent’anni di privatizzazioni sbagliate, controlli inesistenti e profitti miliardari costruiti sulla pelle degli automobilisti.
Il peccato originale: la privatizzazione del 1997
Per capire come si è arrivati a quel punto bisogna tornare al 1997, quando il Governo italiano, reduce da Tangentopoli e in vista dell’ingresso nell’euro, decise di privatizzare parte del patrimonio pubblico.
Tra i beni in lista c’era anche la rete autostradale, allora gestita dalla Società Autostrade, azienda pubblica con 2.800 km di rete e 1,5 miliardi di fatturato.
Per rendere la vendita più appetibile, il Governo Prodi modificò i termini della concessione, introducendo 3 novità:
🗓️ la durata della concessione passò da 20 a 40 anni, fino al 2038
🛣️ il meccanismo dei pedaggi diventò più vantaggioso per il gestore
☑️ gli obblighi di investimento e manutenzione vennero resi vaghi
Fu lì che nacque quello che molti in seguito definirono il “peccato originale”: una concessione sbilanciata a favore del privato, che garantiva profitti elevati e pochissimi rischi.
L’arrivo dei Benetton

Nel 1999 lo Stato mise ufficialmente in vendita Autostrade per l’Italia.
La famiglia Benetton risultò il miglior acquirente: possedevano già Autogrill e Grandi Stazioni, e con Autostrade potevano chiudere il cerchio del controllo sulla mobilità:
nel 2000 acquistò il 30% della società per €2,5 miliardi
nel 2003, lanciò un’OPA (offerta pubblica di acquisto) per salire oltre l’80%, finanziandosi con 6,5 miliardi di debito che poi scaricò sulla stessa Autostrade per l’Italia, controllata da Atlantia, la holding dei Benetton. In sostanza, fu la società (e quindi gli automobilisti con i pedaggi) a ripagare l’acquisto dei Benetton.
Con un investimento reale di 2,5 miliardi, i Benetton si ritrovarono a controllare un’azienda che ne valeva quasi 10, con profitti garantiti e un monopolio di fatto.
I numeri del “tradimento“ di Autostrade
Dal 2000 al 2019 Autostrade per l’Italia ha incassato €52 miliardi di pedaggi, raddoppiando i ricavi da 1,7 a 3,4 miliardi.
Un aumento che non si spiega né con il traffico (+23%) né con l’inflazione (+36%), ma con la formula dei pedaggi scritta nella concessione.
La formula era, appunto, quel meccanismo che consentiva di alzare i pedaggi ogni anno automaticamente, anche senza nuovi investimenti o più traffico.
Pensata per “dare sicurezza agli investitori”, divenne una rendita garantita, facendo crescere i profitti a prescindere dalla qualità del servizio.
Al netto dei ricavi, è interessante anche guardare a come questi siano poi stati spesi. E qui arriva il bello, dal 2000 al 2019:
📉 Gli investimenti sono diminuiti drasticamente: dopo un picco nel 2011, scesero fino a €511 milioni nel 2017, sacrificando di fatto manutenzione e sicurezza

📈 I dividendi, al contrario, sono esplosi: oltre €10 miliardi distribuiti agli azionisti tra il 2000 e il 2019, pari al 20% di tutti i pedaggi pagati dagli italiani. Nel 2017, Autostrade distribuì un dividendo straordinario di 1,86 miliardi, quasi quattro volte gli investimenti di quell’anno
I controlli che non ci sono mai stati
Già nel 2006 l’Autorità per la vigilanza aveva denunciato che solo la metà degli investimenti promessi era stata realizzata, ma nessuno intervenne.
Le responsabilità dei mancati investimenti, però, non riguarda solo la famiglia Benetton.
Fu anche (e soprattutto) responsabilità dello Stato, che non vigilò come avrebbe dovuto.
Le verifiche di sicurezza, infatti, erano affidate a SPEA, società interamente controllata direttamente, da Autostrade: in pratica, chi doveva essere controllato controllava se stesso.
Così, per anni, le istituzioni chiusero gli occhi di fronte a manutenzioni rimandate, lavori mai eseguiti e report interni che segnalavano rischi crescenti.
Nel caso del Ponte Morandi, i segnali d’allarme erano noti da decenni:
👨🔬 nel 1981 lo stesso ingegnere Morandi segnalava problemi ai tiranti
🪢 nel 1992 si scoprì che il 30% dei cavi era corroso
🔎 nel 2018, sei mesi prima del crollo, i tecnici di Autostrade segnalavano che oltre il 20% dei cavi del pilone 9 era distrutto
💪 a maggio 2018 partì una gara d’appalto per i lavori di rinforzo, ma non iniziarono mai
🌧️ il 14 agosto 2018, sotto la pioggia, il ponte crollò
La politica si è svegliata troppo tardi
Dopo la tragedia, la politica promise la revoca della concessione ad Atlantia, ma scoprì una clausola del 2007 che obbligava lo Stato a risarcire i Benetton per tutti i mancati guadagni futuri (in pratica, tra €30 e €40 miliardi).
Nel 2019 il governo Conte modificò la convenzione riducendo l’indennizzo a €8-9 miliardi. Atlantia, travolta dalle perdite in Borsa, decise allora di vendere.
Nel 2022, dopo due anni di trattative Cassa Depositi e Prestiti (51%) e i fondi Blackstone e Macquarie (49%) acquistarono Autostrade per €8,1 miliardi.
Le autostrade tornarono sotto controllo pubblico, con un piano di 14,5 miliardi di investimenti e 7 miliardi di manutenzioni entro il 2042.
La vittoria, però, è solo apparente
A fronte di 2,5 miliardi investiti, la famiglia Benetton ha incassato oltre 6 miliardi tra dividendi, cessioni e vendita finale. E oggi, tramite Mundys, controlla ancora concessioni autostradali in Spagna e Sud America, oltre agli Aeroporti di Roma e al tunnel della Manica.
Il bilancio è chiaro: lo Stato ha perso per vent’anni il controllo di un’infrastruttura strategica, i cittadini hanno pagato pedaggi sempre più alti e, in alcuni casi, con la vita.
La storia di Autostrade dimostra che quando il pubblico abdica al suo ruolo di controllo e regala un monopolio ai privati, il prezzo da pagare è sempre altissimo.
Se vuoi approfondire tutta la vicenda, dai retroscena della privatizzazione al crollo del Ponte Morandi, trovi il video completo sul nostro canale YouTube 👇️
DIGITALE
📦 Amazon Web Services (AWS): quando quando si blocca il motore di Internet

Lunedì 21 ottobre 2025, milioni di persone in tutto il mondo si sono svegliate e, aprendo il telefono o il computer, hanno scoperto che buona parte di Internet non funzionava. App, siti e servizi di ogni tipo erano improvvisamente inaccessibili.
Il motivo? Una sola azienda: Amazon Web Services (nota come AWS), il colosso del cloud che alimenta una fetta enorme del web moderno.
Il problema è iniziato nella regione US-EAST-1, in Virginia, uno dei principali data center di Amazon. Qui il servizio DynamoDB, database utilizzato da un numero impressionante di applicazioni, ha cominciato a generare errori a catena. Nel giro di pochi minuti, l’interruzione si è propagata ad altri servizi AWS, causando un blackout digitale su scala globale.
Ma che cos’è esattamente AWS e cosa fa?
AWS è la piattaforma di cloud computing di Amazon, un servizio che fornisce potenza di calcolo, spazio di archiviazione e infrastruttura digitale a milioni di aziende nel mondo.

In pratica, invece di gestire server fisici nei propri uffici, le aziende “affittano” da Amazon i server e i database necessari per far funzionare i propri siti, app e servizi.
Questa formula ha rivoluzionato l’economia digitale: oggi il cloud è la spina dorsale di Internet, e AWS è il suo leader indiscusso:
🥇 AWS: 30%
🥈 Azure (Microsoft): 20%
🥉 Google Cloud: 13%
📊 Alibaba Cloud: 4%
📊 Oracle: 3%

Questa posizione dominante significa che quando AWS ha un problema, l'impatto si propaga a cascata su una fetta enorme di Internet.
Pensate che AWS gestisce oltre 30 regioni operative in tutto il mondo dal Nord America all’Asia, dal Medio Oriente all’Europa con data center in Irlanda, Germania, Francia, Spagna, Svezia e anche in Italia.
E chi usa AWS?
La domanda più corretta sarebbe: chi non lo usa.
AWS è la base invisibile su cui si appoggiano alcune delle aziende più grandi e influenti del pianeta:
🎬 Streaming e intrattenimento: Disney+, Snapchat, Reddit
🚗 Mobilità: Uber, Lyft, United Airlines, Delta Air Lines
💰 Finanza: Robinhood, Venmo, Coinbase
🍔 Servizi e app: McDonald’s, T-Mobile, Ring
🎮 Gaming: Roblox, Fortnite
🎨 Strumenti di lavoro: Canva, Canvas, Perplexity AI
Persino Amazon.com, il sito di e-commerce, è stato colpito dai disservizi, insieme ai magazzini dell’azienda, dove i sistemi informatici interni si sono bloccati costringendo i dipendenti a fermarsi.
Nel Regno Unito, i siti governativi Gov.uk e HM Revenue and Customs (l’equivalente della nostra Agenzia delle Entrate) sono andati in down, mentre Lloyds Banking Group ha confermato difficoltà con alcuni servizi bancari.
In breve: quando AWS cade, cade una parte dell’economia digitale mondiale.
E qui arriviamo al punto cruciale…
La centralizzazione creata da strutture come AWS può comportare rischi sistemici enormi.
Quando una singola “regione” di AWS si blocca, che sia per un malfunzionamento tecnico, un errore umano o un attacco informatico, migliaia di servizi digitali smettono di funzionare contemporaneamente.
E il blackout del 21 ottobre conferma due cose:
1️⃣ La dipendenza dal cloud è ormai strutturale per l'economia digitale
2️⃣ La sicurezza delle infrastrutture digitali è diventata un tema geopolitico e industriale di primo piano
Insomma, AWS è diventata talmente centrale per il funzionamento di Internet che quando si blocca… si blocca mezzo mondo digitale con lei.
Secondo te, qual è il rischio maggiore della dipendenza da pochi provider cloud? |

🇺🇸 Incontro sì, incontro no (IlPost)
🇺🇦 Attacchi russi su Kiev: sei morti nella capitale ucraina (Agi)

📺️ Ne abbiamo fatta di strada dai tubi catodici (Techy)
🔞 ChatGPT aprirà ai contenuti per adulti (Techy)

🧬 Meno di 4 ore per sequenziare il genoma umano, è record (Ansa)
🧠 Individuato nel cervello il circuito che aiuta a placare l'ansia (Ansa)

Il 23 ottobre 1962, gli Stati Uniti annunciano il blocco navale attorno a Cuba in risposta all'installazione di missili sovietici.
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